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Monica Vitti

«Non ho mai preso la parola a favore di Monica: per discrezione, per pudore… Ma forse ho fatto male. […] Ho per il suo lavoro, […] per la sua passione e per la sua preparazione professionale un tale rispetto […] che non posso più rinunciare a dirlo».

Con questa veemente sincerità Antonioni si rivolge al critico Pietro Bianchi in una lettera espressamente intesa come rimprovero per aver scordato il nome di Monica Vitti in un articolo sulle principali attrici italiane (9A/1, fasc. 19).

La missiva, non datata, è uno dei rari ma preziosi documenti dell’archivio relativi al sodalizio che legò il regista alla grande interprete romana. L’incontro fra i due artisti risale al 1957, quando la giovane attrice viene scritturata per doppiare Dorian Gray nel Grido. All’epoca, Monica Vitti vanta, oltre a qualche apparizione cinematografica e all’attività di doppiatrice, un rigoroso apprendistato teatrale. E teatrale sarà anche la sua seconda collaborazione con Antonioni: sempre nel ’57 il regista la dirige nel dramma scritto con Elio Bartolini Scandali segreti. L’alba degli anni Sessanta coincide invece con la celebre tetralogia dell’incomunicabilità: un quartetto di capolavori in cui Monica, ormai protagonista ricorrente, diventa simbolo di una femminilità nuova, inquieta, dolorosamente a disagio dinnanzi alle storture della vita borghese. Conclusa la memorabile parentesi, l’attrice prosegue con successo la carriera dedicandosi soprattutto alla commedia. Tornerà a farsi dirigere dall’ex mentore solo nel 1980 con Il mistero di Oberwald.

Nella lettera a Pietro Bianchi, Antonioni sottolinea più volte la solidità della formazione di Vitti, minimizzando non solo il suo ruolo di pigmalione, ma ipotizzando perfino che il suo stesso cinema ‒ estraneo com’è all’incandescenza del melodramma ‒ abbia penalizzato un’interprete tanto duttile. La vocazione antidrammatica della tetralogia ha consentito invece all’attrice di sviluppare una recitazione modernissima nella sua sensibilità introspettiva e nel suo categorico rifiuto di quello stile enfatico diffuso fra molte star italiane.

A questa inedita recitazione si aggiunge poi come imprescindibile attributo la bellezza non convenzionale di Monica Vitti, assai distante dal modello imperante della maggiorata. A tal proposito, risulta suggestiva la visione dei provini girati per Il deserto rosso (1964, W.B. 03.08. c. ANT). Conservati fra i “Materiali per la produzione cinematografica e teatrale”, gli screen tests mostrano la musa dell’incomunicabilità alle prese con una serie di mise, ciascuna apparentemente associata a un diverso stato d’animo. Oltre a confermare quella mobilità espressiva tanto ammirata da Antonioni, l’impressionante successione di cambi d’abito, trucco, acconciatura, gestualità e sguardo suggerisce, seppur fugacemente, come Monica Vitti abbia ridefinito l’idea del femminile nel cinema d’autore degli anni Sessanta.

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